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La ricerca di competenze si complica: aumenta il gap tra domanda e offerta
AFFARI & FINANZA LA REPUBBLICA
ll mercato del lavoro italiano non trova pace da parecchi anni e ne sanno qualcosa soprattutto i giovani, ma se un'urgenza diventa perenne forse il problema è strutturale. C'è voluto parecchio tempo prima che questo dubbio, ormai più simile a una certezza, finisse al centro di un ritrovato dialogo tra aziende, scuole, istituzioni e associazioni. Se tardi è sempre meglio che mai, resta comunque tardi. E non stupisce che gli sforzi profusi dalle parti in causa negli ultimi anni non siano riusciti finora a dare quella scossa necessaria a uno scenario occupazionale stressato dalle grandi trasformazioni in atto, dall'avvento della quarta rivoluzione industriale all'avanzata dei Millennials passando per altri trend sociali, politici ed economici. Emblema di questo contesto tutt'altro che agevole è la mancata corrispondenza tra le competenze ricercate dalle aziende e le competenze offerte dai talenti. In Italia, come anche nel resto del mondo, il gap sta infatti tendendo all'allargamento e non è un problema secondario. Stando alla rilevazioni della Talent Shortage Survey, condotta dal colosso delle risorse umane ManpowerGroup su un campione di circa 40mila aziende sparse per il mondo, il disallineamento tra domanda e offerta (anche delle cosiddette soft skill) ha raggiunto livelli record. E in molti Paesi la percentuale dei datori di lavoro che segnalano difficoltà nel reperire i profili necessari fa davvero impressione. Si pensi all'89% registrato in Giappone, su cui pesano fattori come l'assenza di forza-lavoro, l'invecchiamento della popolazione e le restrizioni all'immigrazione. O ai numeri di Paesi come la Romania (81 per cento), Taiwan (78 per cento) e la Turchia (66 per cento). Si piazzano invece sul versante opposto la Cina, con uno scarso 13 per cento di datori di lavoro in difficoltà, e il duo composto da Irlanda e Regno Unito, entrambi a un passo dal 20 per cento. Nutrito è il gruppo di Paesi che gravitano attorno alla media globale (45%) in cui rientrano alcuni big come Germania e Stati Uniti. E l'Italia? Se la cava leggermente meglio con un 37% che non deve però far brindare al successo, visto che come per altri Stati il nostro indice è il più alto dal 2006 (anno della prima rilevazione). Passando al setaccio il focus sul nostro Paese emergono inoltre alcune evidenze degne di riflessione. A partire dalla diversità dei profili più difficili da inserire in azienda: alle prime cinque posizioni della classifica figurano gli operai specializzati (al primo posto per il 12° anno consecutivo), i profili tecnici specializzati, gli addetti alle vendite, gli ingegneri e i professionisti IT. In generale, la domanda risulta in forte crescita per i ruoli con competenze medio-alte e una specializzazione non sempre strettamente legata ad un percorso universitario. Trend da tenere d'occhio perché spia di una fame di competenze che ad oggi le università non sembrano in grado di soddisfare, anche se alcune iniziative (vedi i Competence center previsti dal piano Impresa 4.0) potrebbero aiutare. Il gap di competenze è particolarmente sentito nelle aziende italiane di medie e grandi diMensioni (l'indice rilevato da ManpowerGroup arriva al 62 per cento) ma riguarda anche le realtà minori. Per evitare di frenare i piani di innovazione e internazionalizzazione, le imprese si stanno in qualche modo attrezzando. La strada che va per la maggiore, seguita da oltre la metà dei datori di lavoro, è quella della formazione e dello sviluppo delle competenze all'interno per ricoprire le posizioni aperte. Un antidoto che appare difficilmente sostenibile sul lungo periodo, se non altro perché lascia corta la coperta. Le alternative più percorse sono l'affidamento a lavoratori freelance (40 per cento), modifica al ribasso dei parametri richiesti ai candidati (33 per cento), reclutamento "senza frontiere" (24 per cento) e cambiamento dei modelli lavorativi (23 per cento). Poco battuta la via dell'incremento dei benefit per attrarre i migliori. Mentre cresce il numero di aziende che sfrutta i dati per cercare profili specifici come i disoccupati di lunga durata, i lavoratori part-time e le persone che rientrano nel mondo del lavoro. Capitolo a parte merita il filo rosso dell'innovazione digitale. Le competenze 4.0 sono ormai richieste in ogni settore e funzione, soprattutto per le posizioni più avanzate. Non necessariamente per creare applicazioni o gestire sistemi ma anche solo per servirsene con efficacia per comunicare, vendere, produrre e amministrare. Il tema non è dunque squisitamente tecnologico, anzi. La trasversalità dell'innovazione è emersa con evidenza dall'ultima edizione dell'Osservatorio delle Competenze Digitali, condotto da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia, che ha individuato quattro ambiti su cui impostare nuove iniziative e rafforzare progetti esistenti. Tra questi il rinnovo della formazione digitale a tutti i livelli, dalla scuola all'università, dall'impiegato al manager, e la valorizzazione della leadership digitale, con il management chiamato a fare da driver all'innovazione. Su questi fronti le aziende, le università, i centri di ricerca e le istituzioni si stanno muovendo sempre più con uno spirito di gruppo. E se è vero che "il talento ti fa vincere una partita ma è il gioco di squadra che ti fa vincere i campionati", come sosteneva un certo Michael Jordan che di talento ne sapeva qualcosa, è senza dubbio un trend da bicchiere mezzo pieno.