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Computer e robot al posto di lavoratori in carne e ossa? Ecco cosa ci aspetta secondo uno studio della Bocconi
Campus.Rieti.it

I progressi tecnici e tecnologici hanno creato un mondo letteralmente nuovo e inimmaginabile solo cinquant'anni fa. Ci ritroveremo “vittime” di quelle tecnologie da noi stessi progettate? Il timore riguarda soprattutto il mondo del lavoro, dove un computer o un robot possono – tranquillamente (?) – prendere il posto di un lavoratore in carne ed ossa.

Sarà davvero così? È nel tentativo di rispondere a questa complessa domanda nonché di favorire una reale consapevolezza e conoscenza scientifica che nasce Lavoreremo ancora? Tecnologie informatiche e occupazione, uno studio della Sda Bocconi School of Management condotto da Pier Franco Camussone, ordinario di Sistemi informativi presso l'università di Trento, e Alfredo Biffi affiliate professor di Information System presso Sda Boccconi School of Management, con il supporto di Aica (l'associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico), da sempre impegnata nell’aggiornamento sul digitale nella scuola primaria e secondaria e per l’alta formazione e le professioni autonome e di impresa.

Le 180 pagine del volume si suddividono in due parti: una più “teorica”, in cui si illustra in maniera chiara e con un linguaggio non eccessivamente tecnico il reale impatto che l’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche avrà sul mondo del lavoro, e l’altra diretta a verificare, tramite una specifica indagine, il grado di consapevolezza che hanno a tal proposito gli attori in gioco, ossia manager d’azienda e responsabili del personale aziendale ma anche start upper e studenti.

Ma cosa c’è da aspettarsi quindi da questo futuro? Studiosi di tecnologia ed economisti si schierano su fronti opposti: per i primi «l’impatto dell’informatizzazione spinta sulla società sarà più traumatica della prima rivoluzione industriale della fine del settecento» e per questo «dovremo prepararci a fronteggiare crisi sociali e periodi di riqualificazione della forza lavoro che rimarrà senza occupazione». Per gran parte degli economisti, invece, «il sistema economico troverà un suo equilibrio a medio termine, riassorbendo la forza lavoro in eccesso»; una visione ottimistica che trae fiducia dal passato: ogni innovazione ha infatti creato una disoccupazione momentanea, ma ha poi sempre generato, a lungo termine, un incremento della domanda. «Quest’ultima, a sua volta, ha indotto un aumento produttivo, che ha determinato un riassorbimento dei lavoratori disoccupati o la generazione di opportunità nuove per giovani in cerca di occupazione».

Su una cosa, però, sono tutti d’accordo: le attività più a rischio, in cui è più probabile che  lavoratori in carne e ossa vengano sostituiti da computer e apparecchi robotici, sono quelle strutturate e di routine, che seguono procedure prestabilite e ripetitive nella produzione di beni o servizi. Si parla quindi di aziende manifatturiere, industrie di processo, società che erogano servizi prestabiliti come quelle telefoniche, di erogazione di energia, società di gestione delle reti di trasmissione dati e così via: saranno dunque le «classi salariali intermedie» a sperimentare la più significativa riduzione di lavoratori, poiché «da un punto di vista economico e di efficienza sul posto di lavoro il computer non ha rivali». Diverso il destino di coloro che svolgono un’attività non routinaria, sia questa manuale o concettuale, dove la necessità di componenti quali creatività e soggettività permetterà di considerare al riparo il posto di lavoro: «I computer sono infatti dei lavori ideali e infaticabili quando si tratta di svolgere compiti predefiniti» ma non sono esenti da punti deboli: «sono in difficoltà se devono prendere decisioni senza regole guida. Il loro intuito è al momento molto rudimentale, la loro capacità di cogliere le situazioni o di orientarsi in una situazione relazionale delicata è per ora poco sviluppata». Per questo la macchine potrebbero qui, nel settore non routinario, non sostituire l’uomo ma affiancarlo, così da facilitargli il lavoro e migliorarne il risultato.

Al di là dell’opzione “sostituzione - non sostituzione” c’è però un altro tipo di minaccia che si profila all’orizzonte: la nascita di nuovi modelli di business. Grazie alla diffusione delle nuove tecnologie digitali, infatti, la relazione tra domanda e offerta potrebbe  – e in parte sta già succedendo – cambiare notevolmente, avvicinando fornitori e consumatori dei servizi a tal punto da rendere superflua la presenza di un “mediatore”. Qualche esempio noto? Uber o BlaBlaCar, per i servizi di trasporto, o AirB&B per quelli di alloggio. Insomma, nuove piattaforme che consentono la presa diretta tra domanda e offerta «saltando l’intermediazione delle tradizionali agenzie» e consentendo quindi un notevole risparmio. Si profila, dunque, «un’economia dei freelancer», un’economia in cui ognuno sarà in grado di individuare da solo il prodotto ricercato o, viceversa, di vendere da solo il prodotto o servizio di cui dispone. «In questo caso è lecito domandarsi: si rende più efficiente il mercato o si creano le condizioni per una giungla economica?» scrivono Biffi e Camussone.

Una cosa è certa: bisogna prepararsi ad affrontare i cambiamenti che verranno, arginando il più possibile gli effetti indesiderati. Come? Secondo gli autori i problemi da affrontare sono essenzialmente due: recuperere la forza lavoro resa disponibile dai processi di automazione e formare le nuove leve, coloro che entreranno in un mondo del lavoro con caratteristiche molto diverse da quello attuale. Per la prima area di intervento, ad esempio, bisognerebbe sforzarsi di «pianificare dei corsi di formazione», permettendo a coloro che sono stati sostituiti dalle macchine di imparare un mestiere nuovo e richiesto dall'attuale e futuro mercato del lavoro; mentre per la seconda occorrerebbe introdurre già a scuola materie come la logica informatica, i principi di economia, la generazione e gestione della conoscenza e il funzionamento delle interfacce uomo-macchina.

La responsabilità di come si metteranno le cose sarà un po’ di tutti: dei governi, che dovranno appunto ripensare il sistema educativo e rivedere le materie di insegnamento, ma anche i meccanismi di redistribuzione della ricchezza con strumenti fiscali che permettano a tutti di avere un reddito dignitoso senza che la ricchezza finisca tutta in mano ai “tecnocrati”; delle aziende, che dovranno «mantenere la competenza umana del lavoro dove ciò fa effettivamente la differenza»; e dei singoli individui, a cui sarà richiesto di «adeguarsi alla scomparsa dei lavori più ripetitivi e attualmente più comuni».

Bisogna pensare fin dall’adolescenza a «come inserirsi in un mondo in cui sarà necessaria un’elevata specializzazione per poter lavorare ancora, oppure dedicarsi ad attività più creative e artistiche, oppure ancora prendere in considerazione le professioni artigianali».

Ma soprattutto sarà necessario cambiare mentalità nei confronti del lavoro, che non dovrà più essere percepito come una necessità ma come una via per realizzarsi. Se le macchine produrranno ricchezza e lo stato provvederà a redistribuirla garantendo a tutti uno status di vita soddisfacente, «noi potremmo dedicarci a svolgere le attività che più ci sono congeniali»: alcuni potranno scegliere di proseguire col proprio lavoro in un settore che dà ancora possibilità, altri potranno dedicasi alla ricerca o all’impegno sociale. La cosa essenziale sarà creare un sistema in cui ognuno abbia la possibilità di fungere a suo modo da punto attivo e creativo, così che la differente redistribuzione del lavoro non porti a sentimenti di noia, smarrimento o depressione.

Eppure non tutti sono ben consapevoli di ciò che sta succedendo. Chi si trova già nel mondo del business - come manager, hr manager, start upper e opinion leader - ha generalmente abbastanza chiaro cosa sta accadendo ed è consapevole che l’evoluzione delle tecnologie digitali distruggerà il lavoro routinario mentre danneggerà molto più lievemente il lavoro concettuale di alto livello; chi non è ancora entrato nel sistema, come studenti e neo-laureati, ha invece maggiore fiducia nella «capacità della tecnologia di sviluppare ambiti di lavoro e nell’uomo di poterli governare». Ma per governarli servono informazione e preparazione, e così tale fiducia, più che un punto di arrivo può e dev’essere invece il giusto punto di partenza.